La sentenza senza precedenti che condanna la Thyssenkrupp per l’omicidio volontario di sette operai, morti nell’incendio della linea cinque dell’acciaieria di Torino, in un paese normale dovrebbe indurre i datori di lavoro a investire di più sulla sicurezza. Questa, peraltro, dovrebbe essere sempre preliminare alla produzione, indipendentemente da crisi economiche e ristrutturazioni aziendali, mentre nel caso della Thyssenkrupp la linea cinque era stata trascurata proprio in previsione del suo successivo trasferimento allo stabilimento di Terni.
Ora l’azienda, con atteggiamento ritorsivo nei confronti della condanna, minaccia di non trasferire più a Terni la produzione e addirittura di ritirarla dall’Italia. Il sindaco di Terni, per parte sua, va mettendo in evidenza il nesso preoccupante tra l’esito giudiziario e il rischio di perdere posti di lavoro.
E così siamo di nuovo al ricatto, in virtù del quale per ottenere o mantenere un lavoro si è costretti rinunciare a condizioni contrattuali minimamente decenti (vedi Pomigliano, Mirafiori, Nuovo Pignone, e poi chissà), come anche alla salute e alla sicurezza.
La storia dello sviluppo italiano corre tutta sul filo dell’inquinamento, da Marghera all’Ilva di Taranto, e su quello degli incidenti sul lavoro (spesso mortali, come a Viareggio, alla stessa Thyssenkrupp di Terni o, altro caso che mi sta a cuore, alla raffineria Api di Falconara, nelle Marche).
Questa storia ha visto prevalere nelle rappresentanze politiche e spesso anche sindacali l’atteggiamento del lavoro a tutti i costi che, se comprensibile da parte di chi ne ha estremo bisogno ma non ha alcuna forza contrattuale, nel primo caso diventa connivenza o addirittura sostegno al datore di lavoro, ancora più legittimato a difendere i propri interessi che, come si sa, difficilmente coincidono con il bene del lavoratore.
Tutto ciò ha favorito un modello di sviluppo vecchio e gravemente dannoso per tutti, basato non sull’innovazione o sulla riconversione ma sulla conservazione e ora sulla degenerazione di modi e mezzi di produzione, per non parlare delle relative tutele.
La stessa tutela ambientale, concepita come antitetica alla produzione, è stata spesso trattata anche dai partiti di sinistra come un lusso, un’opzione aggiuntiva a cui rinunciare in nome del lavoro.
Di questo passo è successo che il lavoro, una volta motivo di dignità e di riscatto sociale, oggi sia diventato sinonimo di ricatto, di umiliazione e di cancellazione progressiva dell’identità stessa del lavoratore, che diventa “residuale” se ancora gode di relative garanzie, “invisibile” se precario e infine “inesistente” se disoccupato.
Recentemente ho letto un post nel blog di Alessandro Portelli, che prende spunto dalla presa di posizione del sindaco di Terni per inserire il caso Thyssenkrupp in un contesto di lettura più ampio, fatto di smantellamento dei diritti, di delegittimazione della giustizia, di mistificazione della realtà, compresa quella emozionale.
Urgono contropoteri, dice Portelli, cioè un’azione unitaria, responsabile e di garanzia almeno da parte di quelle forze politiche che si candidano a rappresentare, anche se solo a fini elettorali, chi vive sulla sua pelle il ricatto del lavoro.
Rinvio volentieri alla sua lettura, per condivisione degli argomenti e per le domande che pone in chiusura, sempre nella speranza che arrivino risposte.