Se il Giappone può esserci d’esempio nelle tecniche di costruzione antisismiche non lo può essere per la scelta del nucleare. In queste ore arrivano notizie frammentarie, forse ridimensionate rispetto all’effettiva gravità della situazione, di esplosioni e danni riportati da alcune centrali a seguito delle violentissime scosse che si sono succedute negli ultimi giorni. La situazione non è affatto sotto controllo e, come ai tempi di Cernobyl, ci si interroga sulla direzione del vento e delle piogge per sapere come e dove il fenomeno radioattivo si propagherà. Insomma, si è di nuovo piombati nel fatalismo prescientifico e impotente contenuto nella domanda: e ora, oltre ai poveri giapponesi già devastati da terremoto e tsunami, a chi toccherà? Agli americani e ai canadesi? E in che misura, con quali conseguenze per la salute?
Nei giorni di Cernobyl non ero in Italia ma in paese un po’ più vicino al disastro, e ricordo perfettamente la disinformazione, la paura e anche le difficoltà incontrate alle frontiere per il rientro. Ricordo soprattutto che allora, era il 1986, pensavo a quando si sarebbero potute manifestare le eventuali conseguenze su me per l’aria che avevo respirato e per le verdure fresche che avevo mangiato. L’essere toccata più da vicino rafforzò una cultura ambientalista e antinuclearista che avevo già, aggiungendovi un supplemento di prudenza verso tutto quello che, riguardando direttamente o indirettamente la salute, non fornisce prove più che certe di innocuità.
Oggi, a distanza di tanti anni, rivivo quella paura che però si mescola a un’amarezza maggiore, per l’ottusità persistente di chi, a politiche energetiche e di riduzione dei consumi alternative ed ecologiche, persiste nella rimozione di esperienze gravemente dannose sostenendo con alibi debolissimi la realizzazione di altre centrali.
Così va anche in Italia, dove si parla di programmare tredici centrali nonostante i cittadini abbiano votato contro il nucleare nel referendum del 1987. In Italia, dove si costruisce anche nelle aree di maggiore rischio e senza garanzie di sicurezza (tanto che i terremoti, molto meno intensi di quelli giapponesi, riescono a fare danni del tutto sproporzionati, poi affrontati con inerzie sostanziali e solerzie soltanto speculative), dove si strozza la ricerca nel campo delle energie alternative per ricorrere, a intermittenza, a qualche palliativo di facciata, appunto in Italia rispunta il nucleare, da difendere ad ogni costo anche da un referendum abrogativo, spostato dalle amministrative di maggio al mese successivo, nella speranza che i cittadini vi mettano minore attenzione.
Il tutto nella disinformazione o nella cattiva informazione dei più, a cui si sta dicendo che il problema non è nel nucleare in sé ma nella generazione degli impianti: quelli giapponesi hanno dato problemi perché di vecchia generazione, mentre quelli italiani saranno di nuova e quindi non ne daranno. In realtà, le uniche generazioni di cui dovremmo discutere sono le nostre, attuali e future, periodicamente a rischio per interessi di lobby nucleariste.
Mentre impotenti si aspetta di sapere dove tirerà il vento del Giappone, si vorrebbe almeno che il vento italiano della politica e delle grandi decisioni torni presto ai cittadini, a difesa della loro vita e della loro salute. La parola “nucleare” suona ormai come una campana a morto: il 12 e 13 giugno, giorni del referendum, ricordiamoci di cancellarla definitivamente dal vocabolario, con un risultato schiacciante come lo fu nel 1987.
Il vento della politica, purtroppo, non sembra cambiare: il partito “del fare” va avanti imperterrito.
Anche se qualcuno, nonostante faccia parte della coalizione di governo e non smentisca l’essenza del programma nucleare, comincia a opporsi all’impianto delle centrali nella propria regione. Non basta.