Grazie a @AsinoMorto che ha aperto su Twitter una casa di ricordi resistenti, spalancati all’aria che almeno si può respirare, senza retorica o rabbia che intossicano.
Cos’è la Resistenza, da allora e nel tempo, lo si impara giorno per giorno: pensando, facendo, unendo. Ma niente sarebbe, senza memoria di quello che è stato e che ancora ci lavora dentro. Fascismo e antifascismo, dittatura e libertà, morte e vita sono categorie precise del pensiero e ancor prima della realtà, senza mistificazione o compromesso.
La memoria ci fa essere umani: questa è la prima condizione per una Resistenza permanente. E allora grazie a chi scatena ricordi.
Per @AsinoMorto oggi c’è un racconto, di una bambina piccola su una bicicletta grande. Buon 25 aprile sempre, a lui e a tutti i resistenti.
LA BICICLETTA
Aveva quindici anni ma ne dimostrava dieci. Era piccola e magra, coi capelli lunghi, biondi e la pelle chiara. Sembrava convalescente ma dagli occhi cerchiati usciva uno sguardo vivace e dal corpo un’energia senza limiti.
Mordeva la vita con voracità e consumava tutto, anche se stessa, ma in quel moto perpetuo cresceva e si rafforzava.
La scelsero perché non c’era scelta, ormai. Pareva
una bambina, l’unica di cui il nemico poteva non
sospettare. In casa fecero una riunione segreta, i familiari
e altri che non aveva mai visto. Erano gentili, le dissero
che avrebbe svolto un lavoro importante. Doveva entrare
nella macchia, lì ci sarebbe stato qualcuno ad aspettarla.
Si sarebbero riconosciuti con una parola d’ordine, poi lei
avrebbe detto a voce alta un messaggio.
Quale parola d’ordine, quale messaggio? Doveva
controllare l’impazienza, non fare mai domande e agire
con calma e precisione. Questo le spiegarono, con
fermezza e una delicata premura che la stupì. Si sentì
protetta, capì che le volevano bene.
Avrebbe ricevuto il messaggio da uno di loro, il più
giovane, un ragazzo alto e robusto che le sorrideva come
un fratello. Sarebbe arrivato senza preavviso e
gliel’avrebbe detto a voce. Lei doveva impararlo a memoria
perché scrivere era vietato.
A casa c’era una bicicletta soltanto, quella di suo
padre, che faceva venti chilometri al giorno per andare a
lavorare oltre la collina. Gliene diedero un’altra, da donna,
un po’ grande per lei. Se qualcuno le avesse chiesto
avrebbe spiegato che era un regalo dei genitori, utile
anche da grande.
Venne il giorno e lei si alzò presto per prepararsi.
Voleva mettere il vestito della festa perché si sentiva
importante, ma non glielo permisero: tutto doveva
sembrare come sempre. È un po’ come dire una bugia a
fin di bene, pensò.
Partì pedalando quasi in piedi con tutta la forza che
aveva. Si lasciò dietro la casa e l’aia con le galline. La
madre sulla porta sollevò una mano per salutarla e
nascondere la sofferenza. Così rimase finché la vide,
quella era la loro ultima speranza.
Tra l’aia e la strada non c’erano recinti, la terra finiva
nella strada bianca. A volte le galline prendevano la
direzione opposta al pollaio e lei le riportava indietro
rimproverandole. E ora, qualcuno avrebbe riportato indietro
lei? Era proprio vero che poteva allontanarsi? Doveva
allontanarsi, si disse, stavolta doveva.
Pedalava in piedi e ripeteva continuamente parola
d’ordine e messaggio. Li masticava fra i denti come lupini,
con soddisfazione. Dall’alto della bicicletta tutto sembrava
differente, più grande. Come lei, che pareva cresciuta
all’improvviso durante quel viaggio.
Ai lati della strada bianca crescevano siepi fitte di
erbe selvatiche, a volte così intricate da non distinguersi.
Passando riconosceva i rovi e le ortiche, con cui
combatteva ogni volta per raccogliere i fiori del
biancospino. O le more, che metteva in un sacchetto e
lavava in un abbeveratoio dall’acqua gelida anche in
estate. Poi le mangiava tutte strada facendo, ma
conservava i fiori per seccarli e regalarli a sua madre.
Spesso tornava sudata, spettinata, coperta di graffi
e col fastidio pungente dell’ortica. Gli animali quasi non la
riconoscevano, e le giravano attorno senza avvicinarsi.
Quelli erano giochi e anche sfide, come le corse
sotto i temporali per guardare i fulmini più da vicino. O nel
buio d’inverno, quando tutti dormivano. Attraversava la
stalla o il fienile nell’oscurità e nel silenzio. Entrava nella
notte per non temerla, vi cercava qualcosa di pauroso che
infine non trovava. Allora la notte è tutta vuota, diceva.
Questa era stata finora sua vita, nello spazio di
un’aia e appena oltre, tra il giorno e la notte e qualche
prova di coraggio.
Ai tre pini superò lo spazio conosciuto e l’inizio di
una terra grande e tutta uguale. Suo padre lo chiamava
latifondo, e a nominarne il padrone si arrabbiava sempre.
Fu attraversata da un brivido che scaricò sui pedali
spingendo più forte. Distolse gli occhi sperando di non
incontrare nessuno. La terra grande arrivava fino a un
binario dove il treno non passava più, la bicicletta lo superò
con un salto e lei si sentì liberata d’un peso. Finalmente
avrebbe incontrato un laghetto con qualche salice, la
collina che suo padre risaliva ogni giorno, poi alcuni campi
limitati da fossi e querce. Subito dopo c’era la macchia, da
un po’ di tempo la chiamavano così mentre prima era il
bosco.
Il bosco è troppo fitto, non c’entra il sole nemmeno a
mezzogiorno, figurarsi gli uomini, diceva sempre sua
madre. E invece ora qualcuno ci viveva. Pensò fiduciosa
che la macchia fosse il bosco migliorato dagli uomini e che
uno di loro la stava aspettando. Non era come il padrone
della terra grande, era buono come suo padre e come il
ragazzo che le aveva insegnato il messaggio.
Vide i salici grandi piegati sul lago, l’inizio della
collina e la strada che saliva ripida, poi ritagli di terra
coperti dal grano nuovo e i fossi. Chissà se c’erano more e
biancospini… Ma ora non poteva fermarsi, magari sarebbe
tornata.
Vide le querce secolari a guardia dei terreni,
somigliavano a quelle che crescevano oltre l’aia, all’inizio
del campo dietro la sua casa. Vi dimoravano rondini,
passeri e merli. Solo le rondini si spingevano lontano, dai
rami più alti sciamavano in cielo con voli concentrici. I
merli, invece, entravano nell’aia uno alla volta quando le
galline non c’erano, e i passeri beccavano le briciole dai
davanzali.
Superò cinque file di querce e si accorse che
l’inverno stava finendo dalle sfumature verdi sul marrone e
sul grigio della terra e degli alberi. Sotto le querce si
riunivano tante formiche rosse, minuscole e laboriose. Lei
le osservò curiosa ma non le toccò.
In quel momento una camionetta piena di uomini in
divisa la superò veloce sollevando polvere. Per qualche
istante non respirò e chiuse gli occhi, quando li riaprì erano
già spariti.
I campi si trasformarono in radura, poi in un intreccio
di piante sempre più alte. Si guardò attorno, era sola.
Scese dalla bicicletta e la portò a mano per un po’, poi
proseguì senza.
Entrò nella macchia con il passo svelto di un gioco
di coraggio. Ripassò in fretta parola d’ordine e messaggio,
contenta di ricordarli. Le venne incontro un uomo, giovane,
con la barba e un fazzoletto intorno al collo. Iniziò lui con la
parola d’ordine. Lei gli rispose e pronunciò il messaggio
tutto d’un fiato, scandendo bene le parole. Poi corse fuori
più leggera, aveva superato l’esame. Sollevò il manubrio
della bicicletta e lo diresse verso le querce, riprese i pedali
e spinse.
All’improvviso dalla polvere riapparve la camionetta,
e questa volta si fermò.
Sotto una quercia ritrovarono la bicicletta. Intorno,
tante formiche rosse che andavano e venivano, senza
sosta e senza alcuna meta.