Ho visto “Il discorso del re”, da molti definito un bel film, e quello che spesso mi capita di notare in casi simili si è ripetuto: il prodotto prevale sull’arte, la bella confezione sul messaggio.
Se prendi una storia che può piacere a molti, una sceneggiatura pulita, una regia efficace, qualche attore bravo e conosciuto e poi mescoli tutto, la ricetta funziona. Se però passi all’assaggio, non trovi il tratto originale che distingue un film d’autore da un qualsiasi film. L’effetto è più o meno quello che fanno certi oggetti di serie, perfetti, curati, esteticamente gradevoli e tanto rassicuranti.
I film brutti, irrisolti, da un certo punto di vista sono meno pericolosi, perché non mettono in discussione l’importanza di uno spessore artistico, anzi. E’ quella zona grigia, quella piattezza estetica verso cui scivolano tanti film che rischia di minare le aspettative anche esigenti del pubblico, abbassandone il livello e la capacità critica.
Di questo film, in particolare, non mi convince la minore profondità e ricchezza di toni del personaggio del re, protagonista dell’intera storia, rispetto a quella del logopedista che gli fa da spalla. Anche nella qualità della recitazione il secondo (il bravo Geoffrey Rush di Shine) supera il primo (Colin Firth), che nel rendere una condizione psicologica compressa forse finisce per non toccare tutte le corde a sua disposizione. Non mi convince nemmeno l’ottica ristretta e privata con cui è narrata una vicenda personale che, quando è raggiunta da eventi come l’ascesa del nazismo e la guerra, si mantiene comunque al centro, riducendo il resto a un fondale di scarso peso e realtà.
Certo, il punto di vista scelto e dichiarato fin dal titolo (il discorso “è” del re) è stato onorato fino in fondo, e con una coerenza così puntigliosa, anche nello stile, come forse soltanto un inglese avrebbe saputo fare. Viene però da chiedersi se una minore rigidità di prospettiva, a favore di una maggiore coralità se non di personaggi almeno di contesto, non avrebbe aggiunto quell’ingrediente in più che manca alla ricetta per farla diventare speciale.