Un giorno come oggi di trentuno anni fa, alle dieci e venticinque, nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna scoppiò una bomba che fece ottantacinque morti e oltre duecento feriti. Tra depistaggi di esponenti di servizi segreti e loggia P2 e condanna dei soli esecutori, appartenenti alla destra eversiva, ancora oggi non sappiamo i nomi dei mandanti. Sulla verità vera si sollevano ricorrenti cortine di fumo, piste palestinesi o azioni ritorsive di servizi segreti internazionali. E soprattutto si tengono gli scheletri ben chiusi negli armadi, con il segreto di stato che nega a tutti, compresi i parenti delle vittime di questa e di altre stragi, il diritto di sapere quello che c’è da sapere.
A Bologna morì a ventiquattro anni un ragazzo di Terni, Sergio Secci. Laureato al Dams e ben avviato alla ricerca teatrale, aveva scritto un saggio sul gruppo americano Bread and Puppet e altri ne avrebbe scritti se solo non avesse perso, quel maledetto giorno, una coincidenza per Bolzano. Suo padre Torquato, studioso e collezionista di stampe della cascata delle Marmore, fondò l’Associazione dei familiari delle vittime e si impegnò per avere giustizia per ben quindici anni, praticamente finché ebbe vita. Oggi a Terni un nuovo teatro è dedicato a Sergio e una lapide a Torquato, posta proprio di fronte alla cascata che amava.
Racconto questa storia perché è un esempio di come varie trame occulte abbiano deciso della vita e della morte di tante persone e delle loro famiglie. E poi perché ho la fortuna di avere conosciuto Lidia, madre di Sergio e moglie di Torquato, della famiglia Secci la sola rimasta: una donna forte e discreta, dignitosissima, risoluta nel tradurre il dolore e il ricordo in azioni positive per la città in cui vive.
Il due agosto di ogni anno io la cerco nelle foto della commemorazione ufficiale per essere sicura che sia ancora lì, a schiena dritta e con lo sguardo avanti come sempre.