Antonio Rezza non somiglia a nessuno. Può tenere la scena per ore da solo, uscendo qua e là dai buchi di una tela per rovistare nell’assurdo impietoso dei luoghi comuni del vivere. Usa il corpo e la parola in modo straordinario, torcendosi e trasformandosi in una fusione continua tra materialità e sottigliezza dell’intelletto, tra realtà e pensiero, tra piattezza smorta del conformismo e irruzione delle differenze, fisiche e mentali. Il tutto si rovescia sul pubblico con incursioni improvvise, tragiche e comiche nello stesso tempo, a cui si reagisce con un riso inconsueto, spontaneo e insieme sconcertante. Un’esperienza davvero unica, che si fa anche fatica a definire perché esce dagli schemi del teatro e del comico per abbracciare un’espressività di linguaggio e di immagine a tratti autosufficiente, dato che Rezza è anche scrittore e autore e interprete di cortometraggi. Alcuni di questi sono disponibili in rete e meritano di essere conosciuti per l’originalità e la versatilità dell’artista e per il sodalizio riuscito con la scenografa Flavia Mastrella.
Qui rimando a uno spettacolo di diversi anni fa, senz’altro più conosciuto e anche più facilmente digeribile: ci sono affezionata, perché mi ricorda la prima volta che vidi Rezza dal vivo, in un piccolo teatro delle Marche, un po’ per caso e molto per fortuna.