Che sia un romanzo breve o un racconto lungo, un testo teatrale o una sceneggiatura cinematografica, oppure più probabilmente tutte queste cose insieme, Uomini e topi di Steinbeck è una lettura robusta, per l’intensità degli eventi, e nello stesso tempo strana e inafferrabile, per il riferimento a condizioni umane dure e marginali che dal naturalismo scivolano verso l’incapacità di essere nella realtà e verso un sogno irrealizzabile.
Varia critica ne ha evidenziato alcuni limiti strutturali, ad esempio il tempo corto che non permette ai personaggi maggiori di evolversi e a quelli secondari di superare la tipizzazione, più funzionale alla scena che al respiro del testo letterario. Viene però il dubbio che nel tempo abbia lavorato il pregiudizio di uno Steinbeck minore rispetto ai mostri sacri della letteratura americana a lui contemporanei, primo fra tutti Hemingway, cosicché la forma stessa dell’opera, difficilmente definibile secondo le categorie tradizionali, sia diventata motivo di poca comprensione e assimilazione. Come se una sperimentazione, nel caso di Steinbeck, non meritasse di essere presa in considerazione o, se presa in considerazione, non meritasse di essere valutata con maggiore apertura.
L’inizio, appena una pagina, prende forma di prologo per uno stacco dal resto sia fisico sia stilistico. La descrizione di grande impatto visivo, di una natura originaria e selvaggia che mostra traccia ma non presenza d’uomo (bella, ad esempio, l’immagine dei conigli che “escono dalla macchia a sedersi sulla sabbia della sera”), introduce a un totale e inatteso cambiamento di passo, fatto di dialoghi e scene forti fino all’epilogo, con il sogno di una vita recitato a voce alta proprio mentre lo si uccide.
Quella che sembrerebbe l’espressione coerente di una morale non convenzionale si conduce fino a un gesto estremo che ha valore di finale aperto, tra ribellione e ricomposizione dell’ordine, tra esaltazione della marginalità e suo superamento attraverso un’adesione almeno apparente alla legge degli uomini, violenta e drammatica quanto quella naturale, con i suoi disordini e le sue privazioni.
Il gesto finale, proprio perché senza seguito, si veste di un’ambivalenza che andrebbe letta non come riduzione ma come accrescimento di senso, come anche la cifra oggettiva, intrecciata a elementi a volte trasognati a volte stranianti, acquista uno spessore dialettico, tra realtà e sogno, che neanche la morte riesce a superare.