Quando sento qualche partigiano ancora vivo parlare con la voce rotta dalla vecchiaia e dall’emozione, e con la dignitosa convinzione d’aver fatto la scelta giusta, sento tanta riconoscenza ma anche vergogna per le generazioni successive, che hanno abbattuto in pochi decenni un patrimonio di valori, coraggio e coerenza dalle radici profonde.
Quello che frettolosamente viene definito revisionismo è un fenomeno più complesso, che andrebbe indagato soprattutto in ciò che resta della ex sinistra e dei suoi alleati di sempre.
Se il berlusconismo viene definito mutazione antropologica, altrettanto potrebbe dirsi della trasformazione di chi, dalla Costituente in poi, ha abbandonato progressivamente l’antifascismo, finendo poi per legittimare non soltanto il berlusconismo (tutto basato sul culto della personalità e sul decisionismo in spregio alle rappresentanze popolari) ma anche aree sempre più consistenti di ex fascisti e nuovi razzisti.
Questo è stato possibile anche in virtù di uno stile che non distanzia sé dall’avversario politico, a cui si è consegnata ogni prerogativa anche istituzionale, riconfermandone di giorno in giorno la legittimità con comportamenti irresponsabili se non conniventi, patteggiando leggi, voti, astensioni e assenze strategiche al voto.
Ma se ciò è stato possibile, vuol dire che un’identità politica su cui si è fondata prima la Resistenza e poi la repubblica si è andata mutando in qualcosa di vacuo e inquietante, per certi versi più pericoloso ancora di ogni esplicita manifestazione di nuovo fascismo.
Più pericoloso, perché ad esso si dovrebbe affidare la liberazione dell’Italia da un sistema nei fatti già dittatoriale (e ora anche interventista nell’ex colonia libica).