Sono entrata a Cinecittà accompagnata da tecnici nei primi anni Ottanta, proprio quando Giuliano Montaldo stava spedendo all’estero le attrezzature per girare il suo “Marco Polo”. Fu una visita triste e attenta a qualche spoglia abbandonata del grande cinema italiano: scenografie, costumi e attrezzeria, qualche alchimia residua nei laboratori di sviluppo, vuoti teatri di posa. Quel giorno erano in lavorazione soltanto uno spot pubblicitario e un qualche progetto di Adele Cambria. Per il resto un grande silenzio, rotto dal rumore del nostro cammino sui ciottoli dei vialetti. Mentre cercavo di trattenere negli occhi almeno i costumi di Luchino Visconti, da dietro un angolo sbucò una sagoma enorme con cappotto e cappello. Uno scenografo disse “Buongiorno, dotto’!” e io riconobbi Federico Fellini, forse l’unico rimasto fedele a quel luogo. Erano i tempi di “E la nave va”.
Ora il film di Paolo Sorrentino “La grande bellezza” vince un Oscar e il regista nomina Fellini come uno dei suoi ispiratori. Dichiarazione rischiosa, perché non bastano alcuni simboli felliniani inseriti qua e là per reggere l’importanza del nome evocato. Anzi, le immagini finali della nave da crociera Costa Concordia, naufragata a un passo dalle case dell’Isola del Giglio, sono forse la rappresentazione più esplicita della rovina del nostro paese e della difficoltà di esprimerne la portata tragica in una forma artistica intellettualmente ed esteticamente all’altezza. Altra cosa il bastimento di Herzog in “Fitzcarraldo”, altra cosa il piroscafo felliniano…
Sorrentino ha realizzato un bel film ma non un capolavoro. La natura bifida della sua opera (in bilico tra realismo e visionarietà, tra vuoto tangibile e vuoto trasfigurato, tra denucia e sua sublimazione attraverso una grande finzione multimediale, con immagini di una bellezza algida e autosufficiente e musiche che scuotono) forse è l’aspetto più rischioso ma anche, paradossalmente, più riuscito, per un gioco di specchi e rifrazioni che crea complessità.
Resta però il dubbio che la capacità di lettura di quella complessità, e di una finitezza estenuata fino all’evaporazione, risieda in un altrove ben lontano dai mimetismi acritici e sempre più edulcorati. La vacuità feroce e scivolosa della vita romana è un soggetto difficile da trattare: possono il vuoto umano e la grande finzione che oggi lo alimenta essere denudati e denunciati per mezzo di un’altra finzione, in questo caso cinematografica? Forse occorrerebbe altrettanta ferocia, come quella delle ultime allegorie pasoliniane. Oppure un docufilm che mostri la realtà per quello che è, un po’ come è successo con tutta l’arte che sfila nel film, priva di parola e abbandonata dall’uomo come un animale indifeso (bellissima la scena della giraffa). In quell’arte solitaria e silenziosa sembrano essersi ritirati tutta l’umanità e il senso che mancano ai personaggi, insieme a quel passato di natura e cultura di cui abbiamo perduto le coordinate schiantandoci in un naufragio che continua.
Con la notte degli Oscar quel naufragio è finito in mondovisione, e non c’è bellezza che possa risarcirci.