“Amour” del regista Michael Haneke, oltre a essere un film, è un trattato multidisciplinare – psicologico, filosofico, etico – sulla dignità umana di fronte alla malattia e alle trasformazioni che produce in ogni dimensione del reale e in ogni relazione, familiare e affettiva. E’ un esempio di come la dignità possa essere trasmessa a chi la sta perdendo attraverso l’amore e la sua forza implacabile. E’ un manifesto sull’immensità umana, sulla dilatazione dei confini imposti da una condizione data, sulla possibilità di essere se stessi oltre ogni determinismo, contro ogni destino. E’ infine un esempio altissimo di realismo cinematografico, praticato con rigore estremo, complessità, raffinatezza estetica. Il linguaggio, fatto di interni ravvicinati e impietosi e di totali a volte giustapposti e quasi documentaristici, porta un’eco di Bergman, anche se da lontano e se coperta da un’oggettivazione perseguita con precisione meticolosa, chirurgica. Anche il sogno, il simbolo, il rispecchiamento, la proiezione (disseminati nella storia a conferma di quell’immensità umana che l’occhio del regista sprigiona attraverso i suoi protagonisti), si concretizzano in un campo visivo fortemente circoscritto e nitido, senza alcuna trasfigurazione o mediazione rappresentativa che ne evochi distanza oppure allontanamento. Tutto è vicino, tremendamente e umanamente vicino, così vicino al punto che lo spettatore stesso si trova trascinato dentro la realtà dello schermo, senza saper più distinguere tra la sua realtà e quella, e in quella gli episodi davvero vissuti da quelli immaginati o sognati. Fino alla fine, con un’uscita di scena di una bellezza straordinaria, che cancella in un attimo la memoria di ben altri finali cinematografici, così banali, furbi, ammiccanti (vedi, ad esempio, quello dell’ultimo film dei fratelli Coen).
Indescrivibile il virtuosismo mimetico della coppia di protagonisti, Emmanuelle Riva e soprattutto Jean-Louis Trintignant, calato sugli spettatori con una fisicità da palcoscenico teatrale e la ferinità lucida di un uomo in gabbia, che decide di uscirne tirandosi dietro anche chi non può. Un po’ come l’indiano del “Nido del cuculo” di Forman: uno scarto e poi lo scatto finale, in nome di una dignità umana che della libertà ha la stessa sostanza e le identiche ali.