Molti definiscono Giorgio Orelli uno dei più grandi poeti in lingua italiana del secondo Novecento. Chissà se era d’accordo anche lui, che viveva, scriveva e pubblicava senza alcuna fretta (dal 1944 un libro ogni dieci o vent’anni), innanzitutto per rigore stilistico. E poi perché vita e scrittura si alimentavano a vicenda in piena libertà dalle scadenze editoriali e dalle interferenze degli ambienti letterari e paraletterari. Un esempio anche in questo, coerente fino alla fine, incontrata senza fretta a più di novant’anni alcune settimane fa, con una raccolta di poesie inedite sulla scrivania (per la rabbia di molti), accanto a una Olivetti con cui ancora scriveva, sempre senza fretta.
Scrittore, critico e traduttore di formazione filologico-linguistica, Orelli visse sempre in quella Svizzera italiana che nell’immaginario mio personale corrisponde a un tassello di libertà: montagne, acque di lago, passaggi di uccelli… Una linea appartata, quella dei ticinesi, tra la cultura italiana e quella d’oltralpe. Una linea di fuga, anche, spesso sognata e desiderata da chi è invece destinato a rimanere qua sotto, schiacciato tra un enorme passato e un presente che si spalanca sul vuoto.
La poesia di Orelli – antiretorica, originata dalla narrazione e convertita in partiture di suoni, ritmi e scelte linguistiche accurate e mai omologate – è tutta un esercizio di misura nel plasmare la realtà osservata e il suo pensiero attento, affettuosamente aderente a ciò che accade ma con impercettibile distanza, di rispetto e di stile, di sottile ironia e inaspettata eleganza.
Proprio per questo, mai avrei immaginato che alcuni miei versi, scritti di getto quando morì Fassbinder, potessero piacergli. E invece gli piacquero, tanto che me ne scrisse in una lettera saltata fuori dopo tanti anni. Ora glieli mando da qui e non so bene dove, senza fretta anzi addirittura fuori tempo massimo, in omaggio soprattutto alla sua ironia.
Rainer werner scoppiato tra venti bottiglie
flaconi compresse da interno giardino
di semi orchidee rosso fuoco
era pronto sul set per il ruolo di attore
regista scenografo solo assistente di
scena di sé persistenza su rétina
assolo gestuale di morte di sonno continuo
non in due come nik circolare fluire
e prodursi di gocce benefiche estreme
quando hanno sfondato la porta non c’era nessuno
(“Dopo le lucciole”, Centro Publi Design, 1985)
Qui invece c’è lui con la poesia “Ragni”, dall’utima raccolta inedita che un giorno, senza fretta, forse leggeremo.
Da quando? se da giorni
e giorni, mesi ormai,
mentre riposo li osservo
e scordo e non senza stupore
riscopro: ombre d’acheni,
più piccoli di mezza formichetta
smarrita nell’acquaio: sempre lì,
lontano quanto basta dalla lampada
che ha bruciato l’incauto calabrone,
diafani a furia di guardarli, quasi
trascoloranti in rosa:
chi sa mai se lo sanno
d’essere l’uno a una spanna dall’altro
come due nei su una schiena,
inquilini abusivi del soffitto,
strani compagni della mia vecchiaia:
sempre lì, sempre soli, senza preda,
una volta soltanto è arrivato dal Nord
un ragno d’altro rango,
quasi robusto, nerastro,
è passato col fare inquisitorio
d’un commissario
tra i due come se fossero
sorvegliati speciali,
senza distrarli, è sparito
in fretta nel gran bianco,
e dunque non li ha visti
sincronici calarsi,
sostare penzolando
nel vuoto dove nemmeno si sognano
di cercare un appiglio
per una tela: intenti alle filiere
troppo presto esaurite e come
saggiando il peso d’essere, il mistero,
già pronti a risalire divorando
filo e distanza:
per fingersi di nuovo
due punti nei dintorni
di me