Sono tornata a leggere Wallace Stevens spinta da appena sei pagine (p. 224-229) dell’ultimo saggio di Filippo La Porta (“Poesia come esperienza”, Fazi 2013).
Per inciso, il libro di La Porta è un esperimento riuscito di divulgazione della poesia: mai accademico, originale e diretto, curioso di una curiosità che contagia, anche quando parla di autori che a suo tempo ho studiato per forza, e che poi ho trascurato in nome di una ricerca più libera.
Questo non è il caso di Stevens, che torna con tutta la forza enigmatica, a tratti ostica e fuorviante, di una metafisica della realtà che si fa verso, anche con esplicite e reiterate dichiarazioni di poetica: melodia o rapsodia “delle cose come sono” (“The Man with the Blue Guitar”), “cosa certa che ci regge in certezza”, “preda in sé solida e perfetta” (Credences of Summer”). Stevens è poeta della mente e della fisicità delle cose, due dimensioni strettamente collegate fra loro in una contraddizione forse soltanto apparente. E preziosa, perché generativa della poesia come potente riscatto dal nulla, oggetto esso stesso tra gli oggetti, insidia di svuotamento e insensatezza.
Di Stevens amo soprattutto il primo movimento della famosa “Sunday Morning”, un esempio di poesia vera, nuova e infinita anche all’ennesima prova di lettura. E soprattutto altra e sfuggente di fronte a qualsiasi traduzione, anche in un italiano più ammodernato e meno retorico di quello, ad esempio, degli anni Cinquanta (e di Renato Poggioli, di seguito citato dalla versione per Einaudi uscita con il titolo “Mattino domenicale e altre poesie”):
Lusinghe di vestaglia, ad ora tarda
Caffè ed arance sulla sedia al sole,
La verde libertà di un pappagallo,
Su un tappeto si fondono a disperdere
Silenzi di un arcaico sacrificio …
E poi amo la bellissima “The Snow Man”, che chiude proprio con “quel nulla che è e che non è”, dito nella piaga di un dualismo antico che Stevens declina in modo nuovo e differente rispetto a tanta tradizione europea: ferma al chiodo, verrebbe di dire, mentre lui vola.
Si deve avere un animo d’inverno
Per contemplare questo gelo e i pini
Con le rame incrostate dalla neve;
E avere avuto freddo lungo tempo
Per guardare i ginepri irti di ghiaccio
I rudi abeti nel brillìo remoto
Del sole di gennaio; e non pensare
D’alcun duolo nel gemito del vento,
O nel suono di queste poche foglie,
Voci di una regione visitata
Da quel vento che sempre
Sibila sullo stesso nudo luogo
Per chi ascolta, chi ascolta nel nevaio,
E nulla in sé medesimo, contempla
Là quel nulla che è e che non è.