“Faubourg”, e cioè periferia, è l’ultimo libro di Georges Simenon uscito in Italia per Adelphi. Lì la periferia può essere intesa sia come luogo di provincia sia come marginalità di sé, parte non omologata che cova in separatezza e poi emerge in un crescendo che travolge tutto, anche la tradizionale indolenza di una cittadina altrettanto ai margini.
Simenon stupisce ancora una volta, per la capacità di dipanare una matassa (di situazioni, personaggi e dialoghi) in un andamento e un amalgama, di ambiente e di fatti, così empaticamente costruiti da far pensare a una vera e propria proiezione di sé. O, più precisamente, alla parte più irrisolta di sé dentro un cono d’ombra che, invece di nasconderli, svela i propri comportamenti più torbidi. E una cittadina piccolo borghese li accoglie, per averli prodotti all’origine o per averli indotti dal fondo della sua più agghiacciante e normalizzante quotidianità. Così la comédie humaine diventa palcoscenico per la trasformazione di un protagonista potenzialmente tragico. Fino all’epilogo finale, che rende in tutta la sua evidenza l’esasperazione per un’appartenenza alla medietà della provincia, negata e insieme confermata in un conflitto feroce quanto la medietà stessa.
Quasi per legge del contrappasso, il romanzo è uscito per la prima volta a puntate su un settimanale, concedendosi a una serialità anch’essa media e rassicurante, ma sotto sotto inquietante come la periferia rappresentata. Entrambe, infatti, si mostrano incapaci di contenere una complessità, di contenuto e di stile, tipici di Simenon e delle sue proiezioni in storie non maigretiane.
Leggere oggi il romanzo in unica soluzione, rincorrendo il filo della vicenda e dei dialoghi in un ritmo serrato che non si spezza, rende giustizia all’autore, e naturalmente al lettore, per una ritrovata unitarietà tra centro e periferia, dell’opera e del sé rappresentato.