La biblioteca di Tranströmer

Esco dalle poesie di Tomas Tranströmer disorientata dalla potenza inedita delle immagini, dalle metafore che disegnano un mondo così altro, e così suo, da scoraggiarne quasi la frequentazione. Così mi ritrovo a testa piena e a mani vuote, vuote di quella realtà di idee e di sentimenti umani che il nomadismo delle forme dovrebbe condurre per nuove strade, di critica e di cambiamento. Sono forme, le sue, da studiare per i continui esempi di sconfinamento (da un limite che, più che superato, viene fatto esplodere in esiti creativi originali), ma imbrigliate in una metafisica di sé e della propria personale esperienza poco aperte alla realtà sociale e a qualsiasi poetica che tenti di esprimerla.
Forse, però, queste riflessioni nascono da un mio limite: non sempre, entrando nella poesia, si sceglie la porta giusta. A volte bisogna riprovare, magari dopo un po’ di tempo, dopo aver fatto vuoto di urgenze o aspettative condizionanti.
Oggi, invece, di Tranströmer sento più vicine le poche prose, essenziali e autobiografiche, uscite per Iperborea con il titolo “I ricordi mi guardano”. Amo soprattutto le pagine dedicate alla biblioteca, ospitata nella Casa del cittadino di Stoccolma,

“a muro a muro con i bagni pubblici. All’entrata si respiravano i vapori delle vasche, l’odore di cloro che penetrava dagli sfiatatoi e si sentivano le voci lontane echeggiare nelle piscine. C’è sempre un’acustica meravigliosa nei bagni pubblici. Il tempio della salute e i libri erano vicini, mi sembrava meraviglioso” (p. 37-38)

Il calore dell’acqua, l’odore e le voci, di corpi e di libri: pagine che quasi spariscono ritornando realtà, diventando di tutti. Un po’ come la poesia, a volte…

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