L’ultimo libro di Gilberto Severini s’intitola “Backstage”, un po’ in dissonanza con la cifra tutt’altro che modaiola dell’autore. Il suo contenuto ha la forma di un lungo messaggio destinato all’editore (Playground), sulla possibilità e impossibilità di scrivere un nuovo libro. Che intanto si compie così, tra diario e ricordo, citazione e nota di costume, riflessione che collega passato e presente, ironia e controllo stilistico. Severini asciuga il suo sentire in una forma che coinvolge senza mai travolgere chi legge, rispettando la giusta distanza e permettendo di elaborare in libertà una propria posizione rispetto agli interrogativi sollecitati. Fra essi quello, centrale, sull’orfanità come condizione diffusa e indipendente dalla morte di un padre, e poi sullo svuotamento di senso dei riti comuni nel corso degli anni, e infine sul ricordo. C’è tanto ricordo in questo libro, più partecipe che nostalgico, più rivolto alla vita che viene che al passato, più testimoniale che testamentario. E vi scorre un’affezione di luoghi, fatti e persone che, nel mio caso e per motivi biografici, ha finito per accorciare la distanza di cui si diceva toccando qualche corda emotiva. Più di una volta sono sobbalzata all’immagine, nitida e quasi presente, di personaggi conosciuti in Ancona e ritrovati nel libro dopo tanti anni, dentro rappresentazioni di grande efficacia. C’è Silvano Paganelli, ad esempio, uscito dagli anni Settanta in una notte infelice, lasciandoci orfani dei suoi versi e delle sue battaglie civili. E poi Franco Scataglini, poeta ormai consacrato dalla critica, ricordato attraverso la forza di qualche sua quartina e con il racconto discreto di un rapporto intellettuale chissà quanto intenso. Incontri autentici come la Marca che li ha generati: sobria e profonda, ruvida e gentile, artigiana e geniale, riflessiva sempre, fin quasi alla mania, finita nelle pagine indirizzate a un editore di differente geografia ed esperienza. Quale effetto gli potranno aver fatto, al di là della scelta di pubblicare il libro… Un buon libro, per la verità, perché Severini non tradisce mai gli appuntamenti. E ti porge la sua scrittura con un gesto garbato, come un calice di vino nostro: fermo, maturo, con tante sfumature e un retrogusto che resta e ti lavora dentro, “aspettando risposte”.