I valsusini insegnano che una popolazione può resistere per oltre vent’anni alla realizzazione di una grande opera (in questo caso il tratto ferroviario ad alta velocità Torino-Lione), impegnandosi, documentandosi, spiegando agli altri le proprie ragioni, presidiando la propria terra e difendendone il futuro. Dimostrando, anche, che certe battaglie non hanno dimensione soltanto locale, perchè una grande opera purtroppo ne descrive molte altre per: inutilità; danni all’ambiente, alla salute e alla qualità della vita; spreco di risorse economiche pubbliche; infiltrazioni criminali nella realizzazione; militarizzazione del territorio; deregolamentazione nella gestione delle risorse; partiti in appoggio per trarne qualche utilità. E, soprattutto, per riferirsi a un modello di sviluppo ormai anacronistico, irrazionale, letale.
Una grande opera spesso corrode la democrazia, per impopolarità e conseguenti modalità di attuazione coercitive e violente. Anche la gestione di un’emergenza può funzionare così, come può accadere che il concetto di emergenza si applichi addirittura all’attuazione di una grande opera, a tutela di enormi somme di denaro pubblico da spendersi entro determinate scadenze, perché previste da legge o da patti non sempre confessabili con la catena lucrativa (o inaugurativa, nel caso di scadenze elettorali).
Il movimento No Tav, dopo più di vent’anni di resistenza, soltanto sabato scorso ha potuto vedere l’ispezione delle zone militarizzate da parte di un gruppo di parlamentari che ne condivide le ragioni. Poi l’ennesima marcia, a conferma che l’impegno continua, per il bene di tutti.
La speranza è che sabato si sia fatto un altro passo avanti. Perché, se la volontà di movimenti radicati sul territorio si salda con una rappresentanza istituzionale veramente di servizio e non opportunista e fagocitante, un pezzetto di democrazia può camminare su gambe più forti: in Valsusa, nel palazzo e dovunque in Italia…