Questi giorni dovrebbero essere di silenzio riflessivo e di pochissime parole, da dirsi soltanto se accompagnate da atti concreti che cambino profondamente il sistema politico che è imploso. E invece si riversano ovunque (in rete, sui giornali e nelle tv) fiumi di discorsi inutili. L’entropia è alta, troppo alta ovunque, e un movimento di cellule presunte sane rischia di essere aggredito dallo stesso virus che ha mangiato da dentro i partiti. Occorrono calma, coraggio e profonda limpidezza di sguardo, perché si tratterà di guardare l’abisso senza esserne risucchiati. I giovani a cinque stelle si proteggano, vadano in cima a qualche montagna o in mezzo a qualche campagna, stiano lì tutti insieme in una specie di ritiro a respirare profondamente e a concentrarsi. Fino all’ingresso nel palazzo, integri almeno fin lì. Dove la partita non sarà semplice, perchè si tratterà di difendere un grande patrimonio di speranze elettorali da meccanismi da guerra molto ben oliati. E tutto questo mentre il paese sprofonda in una crisi senza precedenti, con i veri responsabili che tentano di proiettare la propria annosa inadeguatezza sugli ultimi arrivati.
Personalmente non credo negli intellettuali come categoria, come non credo in quelli che vengono definiti lavoratori della conoscenza, ancora una volta ingabbiati in una categoria. Tanto meno credo che si tratti, in entrambi i casi, di gruppi di maggiore importanza sociale rispetto, ad esempio, a quelli dei camionisti o dei braccianti a giornata. Anzi, credo che qualsiasi attività intellettuale vada accompagnata da un forte spirito di servizio e da un continuo mescolamento con la realtà, pena la possibilità stessa di darsi. E allora, in risposta a fiumi di parole cosiddette intellettuali scorsi in questi giorni, molto capaci di certezze e poco di dubbi e speranze, scelgo il cortocircuito di una poesia scritta e cantata da Fabrizio De André: smisurata come solo le poesie vere sanno essere, e soprattutto capace di realtà.