Si fa fatica a condensare in qualche riga tutto quello che può scatenare, tra riflessioni ed emozioni, la tromba rossa di Miles Davis che prende a pretesto il pop più trito, per esempio il brano Time after time di Cyndi Lauper, e lo scarnifica, lo trasfigura e lo riavvicina al rock e al suo pubblico. Come al rock ha riavvicinato il suo jazz, che non è stato soltanto jazz ma tanto di più e di altro. L’eresia musicale, come in genere le eresie, è ciò che permette di sperimentare e intanto provocare un cambiamento, proprio e del pubblico. Si sa che questo può costare le disapprovazioni più accese di critici paludati e di nicchie di estimatori con il verbo in tasca e la puzza al naso, ma si va avanti ugualmente, seguendo un demone creativo magari incompreso e mal tradotto in deriva commerciale, quando invece resta, anche dopo tanti anni, quello che era e che ancora è: la straordinaria capacità di un artista di costruire su un semplice pretesto, cioè qualche nota addirittura melodica, una microenciclopedia della musica secondo se stesso, dal fiato struggente e nostalgico di qualcosa che si è perso chissà dove, magari tra i campi di cotone, fino alla realtà metropolitana in un assolo elettrico. Di fronte, una marea da stadio che rende tutto più caldo e più vicino alla vita di tanti. Per quest’ultimo motivo sento più vicina l’esibizione di Tokio (meno perfetta e anche meno jazz di altre che circolano in rete, da Montreux a Montréal), sporca e straniante, autentica nonostante tutto. E necessaria, anche per tanta musica nata negli anni dopo.