“Come possono gli stessi operai chiedere di continuare una produzione o un’attività nociva a loro stessi e agli abitanti della loro città, ai loro figli, alla gente? Chi meglio dei lavoratori potrebbe informare e mettere in guardia quando una produzione è pericolosa per la salute di chi ci lavora, di chi sta intorno e di chi consuma il prodotto? Quale sfida per il movimento ecologista uscire dal tunnel della chimica pesante, delle produzioni energetiche ad alto rischio e alto inquinamento, delle megaopere pubbliche, della stradomania, della dittatura dell’automobile… L’idea di un globale disegno di risanamento del lavoro e anche di una grande cassa integrazione verde si fa sempre più strada. Vorrà dire prendere per le corna il toro dell’alienazione e lavorare per il disinquinamento non solo dell’ambiente ma anche della vita di milioni di persone, dentro e fuori le fabbriche, gli uffici, i servizi, le campagne”. Questo scriveva Alex Langer nel 1983: parole di utopia e insieme di straordinario realismo, per la sopravvivenza di tutti, operai e padroni accomunati dallo stesso rischio ambientale.
Quello che sta succedendo all’Ilva di Taranto mostra invece la nostra incapacità di conciliare ambiente, salute e lavoro e di integrare contenuti ecologici in un’ampia visione politica e sindacale. In decenni di disastri ambientali e di incidenti sul lavoro nessuno c’è riuscito, nemmeno chi ha tentato di costruire ponti tra culture e pratiche tra loro lontane, e men che meno chi ha ridotto l’ambientalismo a una corrente di partito (o a “quota verde”) oppure a una bella lettera “E”, centrale dentro una sigla anch’essa di partito.
E così oggi ci ritroviamo, al di là di pure operazioni di marketing elettorale, da una parte un ambientalismo ritenuto di lusso (ora anche di più, vista la gravità della crisi) e dall’altra la strana alleanza tra lavoratori e padroni, in difesa di un lavoro anche a costo della vita. Un abbraccio mortale che, con qualche raro distinguo, politica e sindacati addirittura incoraggiano, mentre dovrebbero agire come forze di interposizione per salvare le vittime e pure i carnefici. Ma come potrebbero, se il paese è ridotto a una landa desolata in cui scorrazzano predoni dai ruoli ormai indistinguibili (che siano politici, tecnici, imprenditori o finanzieri non fa più alcuna differenza)?
In una situazione simile è automatico che finisca sui magistrati tutta la responsabilità di decisioni (come lo stop dato all’Ilva, dopo anni di inerzia nonostante le morti) vissute dai cittadini come atti estremi di salvezza, e dai predoni come insidiosi sconfinamenti tra i propri inconfessabili interessi.