“L’offensiva dell’accumulazione neoliberista passa evidentemente attraverso la distruzione dei diritti sociali esistenti, attuata attraverso la criminalizzazione delle resistenze popolari (col pretesto in particolare di emanare legislazioni “antiterroriste”). Viene così disposta una panoplia di ordinamenti che vanno a costituire una sorta di nuova “legge sui poveri”, mirante a rafforzare il controllo sociale… Ma in risposta a tutto ciò emergono nuove forme di resistenza da parte delle popolazioni spossessate… in nome della difesa dei servizi pubblici, della sovranità energetica e alimentare…, dei beni comuni (acqua, terra, aria, risorse biologiche ed ambientali)… O, più semplicemente, si scatenano lotte per il diritto di avere diritti…” (Gli spossessati, Ombre corte, 2009, p. 73).
Le parole di Daniel Bensaïd, filosofo francese scomparso qualche anno fa, tracciano una fotografia anche dell’Italia di oggi. Qui i tentativi dal basso di difendere beni, servizi pubblici e diritti hanno come contraltare lo spossessamento attuato dall’alto per decretazione d’urgenza. Questo non può che accompagnarsi a un regime di paura, a uno stato di polizia che si anticipa nelle parole di ministri e giornalisti compiacenti. Pericolo terrorismo e intervento dell’esercito sbattuti in prima pagina, sostenuti da teoremi giornalistici che collegano forme di critica e di impegno sociale a chissà quale oscura regia eversiva, non fanno che accrescere insicurezza e paura in chi già soffre di precarietà, di crisi economica e anche dell’impossibilità di autodeterminarsi attraverso pratiche positive e collettive che ridiano futuro.
Per un’analisi chiara di come ha sempre agito la violenza in Italia, di piazza e clandestina, occorrerebbero almeno due condizioni: una lettura trasparente del funzionamento dei servizi segreti e delle forze di sicurezza pubblica e la rinuncia a ogni strumentalizzazione per fini di controllo sociale. Né l’una né l’altra sono all’ordine del giorno del governo, che ha appena nominato sottosegretario all’intelligence Gianni De Gennaro, parte di quella catena di comando che a Genova nel 2001 determinò ciò che Amnesty International definisce “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”. E che utilizza un attentato (su cui sono in corso indagini) e alcuni atti di ribellione (dovuti principalmente all’esasperazione per la crisi) per inoculare nel paese la paura e per giustificare un controllo più forte del territorio.
La paura sposta l’attenzione dai veri problemi, toglie lucidità e forza, rende deboli, subordinati, ricattabili. Il pugno di ferro è la negazione dell’intelligenza umana e la scorciatoia più facile per l’autoritarismo.
Alla svolta autoritaria, che nell’occupazione forzosa delle istituzioni di fatto in Italia si è già compiuta, manca non tanto il pugno di ferro (già all’opera un po’ ovunque) quanto la sua legittimazione per decreto d’urgenza. Ma a breve arriverà anche quella, perché serve a portare a termine senza troppi intralci quello che Bensaïd chiama spossessamento, e che può definirsi costo di una crisi di sistema scaricato sui deboli, affinché il sistema stesso e i suoi potenti ne escano indenni e rafforzati. Inoltre, chi non ha interesse ad intervenire sulle cause del disagio sociale non ha certo intenzione di gestirne le conseguenze.
Così il cerchio si chiude e il giro ricomincia, con disagio sociale, violenza, paura e autoritarismo autoprodotti da chi ci governa per la sua sola sopravvivenza. Per la nostra, invece, non c’è altra strada che uscire da quel cerchio.