Nel 1961 Roberto Rossellini si allontanò dal grande schermo per dedicarsi all’uso del mezzo televisivo nella divulgazione di contenuti storico-culturali, in un progetto di educazione permanente di grande portata, sia per l’impegno documentario sia per l’elevato livello artistico messo al suo servizio. La presa del potere da parte di Luigi XIV, film realizzato per la tv francese nel 1966, è parte di questo percorso. Definito dal regista un “saggio sulla tecnica del colpo di stato”, segue l’ascesa di Luigi XIV a partire dal 1661, anno della morte del cardinale Mazzarino, fino al suo culmine con il trasferimento della corte a Versailles, nella reggia nel frattempo ampliata (1682). Del ventennio il regista individua alcune tappe fondamentali: l’emancipazione del re da sua madre (Anna d’Austria), l’appoggio di Colbert e l’arresto di Fouquet, il controllo della nobiltà attraverso la protezione economica (utile anche per allontanarla dalla borghesia) e la sua sottomissione attraverso un rituale collettivo di mode e apparenze che la svuota progressivamente proprio mentre la ammette alla contemplazione del monarca assoluto.
L’approdo a Versailles è da questo punto di vista il compimento materiale e simbolico di una parabola che, proprio mentre si compie, mostra anche tutta la sua fragilità. In un grande coup de théâtre Rossellini ci mostra infatti il Re Sole finalmente solo, libero dall’abito e dalle finzioni, mentre riflette su La Rochefoucauld che scrive: “le soleil ni la mort ne se peuvent regarder fixement”. Siamo alla vertigine estrema del dubbio, al realismo che si insinua nel profondo dell’io per trarne la metafora degli opposti vita-morte e realtà-finzione, e per poi superarli, forse, in nome di una libertà come unica scelta umanamente sostenibile.
Oltre a essere un saggio sul potere, questo film è anche un prezioso esempio del cinema rosselliniano cosiddetto didattico, contrario a ogni educazione castrante e nello stesso tempo fiducioso nell’uomo “che sa”, capace proprio per questo “di tutto il bene possibile”. Libero da ideologie, il regista offre con grande generosità e senza mediazioni la realtà allo spettatore, perché possa farne una sua personale esperienza. Sono dunque l’ampiezza e l’apertura della conoscenza umana, etica ed estetica insieme, a evitare il rischio di specializzazioni nemiche di un sapere che sia davvero per tutti.
Stiamo parlando di una pellicola di quasi cinquant’anni fa, dai contenuti ancora più lontani nel tempo. Eppure il confronto con la nostra realtà è ineludibile e anche impietoso, per l’odierna distanza tra bello e vero, per la scarsa qualità dei media, per la mancanza di una attività divulgativa a fronte o di una settorialità esasperata o di pessimi talk show, preconfezionamento e messa in scena continua di un mondo finto, funzionale all’acriticità individuale e collettiva.
La grande fiducia di Rossellini nel mezzo televisivo ci ricorda senza mezzi termini quali preziose occasioni si siano perse facendo diventare la tv, tra privatizzazioni e monopolio, incultura, censura e pianificazione del consenso, un mostro pericoloso da cui oggi è meglio stare lontani.
Quanto all’assolutismo, il vecchio simulacro di trucchi e vestizioni, di banchetti sontuosi e battute di caccia non ci immunizza certo da altri rituali mentre l’introversione accompagnata all’audacia è un tratto caratteristico del re rosselliniano ma anche di tanti dittatori recenti. E’ però lo svuotamento delle strutture dello stato, in funzione di un potere sempre più personale e indiscutibile, ad avere maggiore somiglianza con la nostra storia recente e attuale. A ciò si aggiungono purtroppo due aggravanti: centinaia di anni passati inutilmente e la tecnocrazia finanziaria come unica dimensione ormai riconosciuta, dell’individuo e della società.
Detto in altre parole, è molto improbabile che il re Monti si fermi a riflettere sul sole e sulla morte. Anche per questo all’Italia manca gente come Rossellini, capace di mettere il bello al servizio del vero e l’emozione artistica al servizio di un’immedesimazione potente, utile per la comprensione della storia in forma diretta e personale. Affinché certa storia, appunto, non venga a ripetersi.