Ho appena letto “A cosa servono gli amori infelici” (Playground, 3. ed. 2011), in cui Gilberto Severini conferma un suo personale microcosmo da romanzo novecentesco di provincia. Attraversato da suggestioni letterarie straniere, è restituito con passo essenziale e scrittura rigorosa, che non concede proprio nulla alle mode. Come l’autore del resto, coerente nell’evitare passaggi televisivi, salotti pseudoculturali e gironi infernali di critici potenti, così pericolosi per ogni progetto letterario autentico. E’ un marchigiano, Severini, di quella Marca delle buone maniere e delle malinconie collinari prossime all’infinito leopardiano, da sempre imprigionata nei condizionamenti di un clero incombente sugli stili di vita e sulle scelte personali, sui rapporti con gli altri e con la roba, sia intesa in senso verghiano sia riferita al bagaglio interiore delle esistenze. Tra blocchi psicologici e sensi di colpa la fisicità è ogni volta sotto scacco, incapace di darsi interamente alla vita.
Una Marca difficile la nostra, ma più capace di preservare anche nei conflitti uno spessore umano e una riservatezza altrove polverizzati. Penso ai laboratori del consumo e del vuoto delle Marche del nord, autocondannate alla ripetizione dello stereotipo di “essere più avanti”, in una voragine di originalità e sostanza nemmeno intuita.
Il libro segna l’anno 1999 e il suo protagonista è sospeso sull’orlo di un ultimo Novecento coincidente con una sua vicenda privata: si trova in ospedale, dove l’attesa di un’operazione delicata gli offre l’occasione per rivedere il suo passato, dalla giovinezza fino ai grumi finali di un rimpianto per ciò che non è stato. Così si vengono mescolando monologo interiore, autobiografia malcelata e innesti epistolari, tutti funzionali allo svelamento di una vita a metà, fatta di intelletto e cultura, di parole “di vento” e non di materia, di aristocratico ritiro in uno spazio riservato e protetto da un’eleganza antica, che pone distanze e impedisce di essere raggiunti.
Una vita trascorsa in anticamera, al riparo dagli addii e ancor prima da ogni coinvolgimento affettivo profondo, per evitarne perdite e lutti. Una vita senza amore e senza disamore. L’angina pectoris che conduce il protagonista in ospedale è forse l’unica incarnazione di un solo disamore certo, quello per il proprio mestiere di ghostwriter al servizio dei presidenti di una fondazione. Alla fine è il corpo che si ribella, generando domande che scavano sotto una somatizzazione primaria per rinvenire altre esperienze irrisolte, affidate alla scrittura in un tentativo di inventario che, alla vigilia dell’intervento chirurgico, suona come evocazione testamentaria priva di risarcimento.
Mi piace il realismo impeccabile delle descrizioni ospedaliere e di un io che racconta, inesorabile. Quando però passa al “tu” o al “lei” epistolare non sempre raggiunge la stessa forza. In particolare in quest’ultimo caso, il “lei” sembra allontanare anche da un dire indispensabile, altrimenti sempre all’erta, e con misura davvero straordinaria. E’ proprio questo invece l’esito migliore, forza espressiva e misura che procedono insieme con naturalezza, rivelando una cifra autentica e sorprendente.
Mi piace anche il cambio di passo che porta a un’ironia che discerne. E che racconta la genesi dei discorsi presidenziali come anche un probabile dialogo con dio (o con l’altro, oppure con una parte di sé): lì finalmente si manifesta un pensiero critico che esce dall’eleganza discreta dell’autocontrollo. O dello stile stesso, che come il vestito buono del protagonista potrebbe rischiare di sottolineare, non soltanto simbolicamente, un’ulteriore distanza dalla vita vera e dagli altri.
Per me, non lo nascondo, questa lettura è stata anche un tuffo nel passato. Alcuni riferimenti coincidono con miei ricordi di giovinezza, di luoghi e di persone, e con conoscenze comuni. Nel frattempo qualcuno se n’è andato, qualcun altro per fortuna ancora c’è. Ho pensato che se potessimo ritrovarci tutti, qui ed ora, forse insisteremmo sull’importanza che Severini continui a essere uno scrittore e basta, lontano dalle mischie videocratiche e dalle curiosità pruriginose, a conferma di una dimensione privata della scrittura così indispensabile per il suo stesso farsi.