Aveva quindici anni ma ne dimostrava dieci. Era piccola e magra, coi capelli lunghi, biondi e la pelle chiara. Sembrava convalescente ma dagli occhi cerchiati usciva uno sguardo vivace e dal corpo un’energia senza limiti. Mordeva la vita con voracità e consumava tutto, anche se stessa, ma in quel moto perpetuo cresceva e si rafforzava.
La scelsero perché non c’era scelta, ormai. Pareva una bambina, l’unica di cui il nemico non avrebbe sospettato. In casa fecero una riunione segreta, i familiari e altri che non aveva mai visto. Erano gentili, le dissero che avrebbe svolto un lavoro importante. Doveva entrare nella macchia, lì ci sarebbe stato qualcuno ad aspettarla. Si sarebbero riconosciuti con una parola d’ordine, poi lei avrebbe detto a voce alta un messaggio.
Quale parola d’ordine, quale messaggio? Doveva controllare l’impazienza, non fare mai domande e agire con calma e precisione. Questo le spiegarono, con fermezza e una delicata premura che la stupì. Si sentì protetta, capì che le volevano bene.
Avrebbe ricevuto il messaggio da uno di loro, il più giovane, un ragazzo alto e robusto che le sorrideva come un fratello. Sarebbe arrivato senza preavviso e gliel’avrebbe detto a voce. Lei doveva impararlo a memoria perché scrivere era vietato.
A casa c’era una bicicletta soltanto, quella di suo padre, che faceva venti chilometri al giorno per andare a lavorare oltre la collina. Gliene diedero un’altra, da donna, un po’ grande per lei. Se qualcuno le avesse chiesto avrebbe spiegato che era un regalo dei genitori, utile anche da grande.
Venne il giorno e lei si alzò presto per prepararsi. Voleva mettere il vestito della festa perché si sentiva importante, ma non glielo permisero: tutto doveva sembrare come sempre. E’ un po’ come dire una bugia a fin di bene, pensò.
Partì pedalando quasi in piedi con tutta la forza che aveva. Si lasciò dietro la casa e l’aia con le galline. La madre sulla porta sollevò una mano per salutarla e nascondere la sofferenza. Così rimase finché la vide, quella era la loro ultima speranza.
Tra l’aia e la strada non c’erano recinti, la terra finiva nella strada bianca. A volte le galline prendevano la direzione opposta al pollaio e lei le riportava indietro rimproverandole. E ora, qualcuno avrebbe riportato indietro lei? Era proprio vero che poteva allontanarsi? Doveva allontanarsi, si disse, stavolta doveva.
Pedalava in piedi e ripeteva continuamente parola d’ordine e messaggio. Li masticava fra i denti come lupini, con soddisfazione. Dall’alto della bicicletta tutto sembrava
differente, più grande. Come lei, che pareva cresciuta all’improvviso durante quel viaggio.
Ai lati della strada bianca crescevano siepi fitte di erbe selvatiche, a volte così intricate da non distinguersi. Passando riconosceva i rovi e le ortiche, con cui combatteva ogni volta per raccogliere i fiori del biancospino. O le more, che metteva in un sacchetto e lavava in un abbeveratoio dall’acqua gelida anche in estate. Poi le mangiava tutte strada facendo, ma conservava i fiori per seccarli e regalarli a sua madre.
Spesso tornava sudata, spettinata, coperta di graffi e col fastidio pungente dell’ortica. Gli animali quasi non la riconoscevano, e le giravano attorno senza avvicinarsi.
Quelli erano giochi e anche sfide, come le corse sotto i temporali per guardare i fulmini più da vicino. O nel buio d’inverno, quando tutti dormivano. Attraversava la stalla o il fienile nell’oscurità e nel silenzio. Entrava nella notte per non temerla, vi cercava qualcosa di pauroso che infine non trovava. Allora la notte è tutta vuota, diceva.
Questa era stata finora sua vita, nello spazio di un’aia e appena oltre, tra il giorno e la notte e qualche prova di coraggio.
Ai tre pini superò lo spazio conosciuto e l’inizio di una terra grande e tutta uguale. Suo padre lo chiamava latifondo, e a nominarne il padrone si arrabbiava sempre. Fu attraversata da un brivido che scaricò sui pedali spingendo più forte. Distolse gli occhi sperando di non incontrare nessuno. La terra grande arrivava fino a un binario dove il treno non passava più, la bicicletta lo superò con un salto e lei si sentì liberata d’un peso. Finalmente avrebbe incontrato un laghetto con qualche salice, la collina che suo padre risaliva ogni giorno, poi alcuni campi limitati da fossi e querce. Subito dopo c’era la macchia, da un po’ di tempo la chiamavano così mentre prima era il bosco.
Il bosco è troppo fitto, non c’entra il sole nemmeno a mezzogiorno, figurarsi gli uomini, diceva sempre sua madre. E invece ora qualcuno ci viveva. Pensò fiduciosa che la macchia fosse il bosco migliorato dagli uomini e che uno di loro la stava aspettando. Non era come il padrone della terra grande, era buono come suo padre e come il ragazzo che le aveva insegnato il messaggio.
Vide i salici grandi piegati sul lago, l’inizio della collina e la strada che saliva ripida, poi ritagli di terra coperti dal grano nuovo e i fossi. Chissà se c’erano more e biancospini… Ma ora non poteva fermarsi, magari sarebbe tornata.
Vide le querce secolari a guardia dei terreni, somigliavano a quelle che crescevano oltre l’aia, all’inizio del campo dietro la sua casa. Vi dimoravano rondini, passeri e merli. Solo le rondini si spingevano lontano, dai rami più alti sciamavano in cielo con voli concentrici. I
merli, invece, entravano nell’aia uno alla volta quando le galline non c’erano, e i passeri beccavano le briciole dai davanzali.
Superò cinque file di querce e si accorse che l’inverno stava finendo dalle sfumature verdi sul marrone e sul grigio della terra e degli alberi. Sotto le querce si riunivano tante formiche rosse, minuscole e laboriose. Lei le osservò curiosa ma non le toccò.
In quel momento una camionetta piena di uomini in divisa la superò veloce sollevando polvere. Per qualche istante non respirò e chiuse gli occhi, quando li riaprì erano già spariti.
I campi si trasformarono in radura, poi in un intreccio di piante sempre più alte. Si guardò attorno, era sola. Scese dalla bicicletta e la portò a mano per un po’, poi proseguì senza.
Entrò nella macchia con il passo svelto di un gioco di coraggio. Ripassò in fretta parola d’ordine e messaggio, contenta di ricordarli. Le venne incontro un uomo, giovane, con la barba e un fazzoletto intorno al collo. Iniziò lui con la parola d’ordine. Lei gli rispose e pronunciò il messaggio tutto d’un fiato, scandendo bene le parole. Poi corse fuori più leggera, aveva superato l’esame. Sollevò il manubrio della bicicletta e lo diresse verso le querce, riprese i pedali e spinse.
All’improvviso dalla polvere riapparve la camionetta, e questa volta si fermò. Sotto una quercia ritrovarono la bicicletta. Intorno, tante formiche rosse che andavano e venivano, senza sosta e senza alcuna meta.