Evasione fiscale, spese militari, sprechi e corruzione politica sono una costante in questo paese. Vengono da lontano e continuano, come viene da lontano e continua il lavoro sporco di far pagare crisi e debito pubblico a chi ha meno lavoro, meno soldi e anche meno responsabilità. Il lavoro sporco è passato nei decenni di mano in mano, trasversalmente, distruggendo con sistematicità un patrimonio di diritti e tutele costruito con fatica e inaugurando governi di emergenza che hanno sempre ricompattato gli interessi della peggiore politica e dei poteri più forti. Il tutto in un deficit di democrazia, tanto per usare un eufemismo, che schiaccia le volontà di molti con le imposizioni di pochi.
E ora ci risiamo, con una formula di governo (professori e manager, delle banche e della finanza) inedita all’apparenza ma nella realtà riedizione di interessi dapprima economici, e ora anche finanziari, che vanno direttamente a sedersi sugli scranni più alti dello stato senza più alcuna mediazione, né politica né sociale. Con un colpo di teatro il coro della politica è indietreggiato, lasciando il proscenio a qualche solista per l’ultimo acuto. Che ieri sera si è alzato con tutta la sua forza antipopolare, decretando la condanna di intere fasce sociali a pagare i banchetti allestiti dai partiti in un cinquantennio, passati per il craxismo e la prima tangentopoli e poi per il berlusconismo, i suoi scandali e le sue collusioni, senza soluzione di continuità. Poteva essere una resa dei conti e invece sta diventando un ennesimo trasformismo, un paravento che i “professori” alzano a copertura dei partiti, perché si salvino dal linciaggio elettorale e si ripresentino in scena con un vestito nuovo, al netto delle proprie gravi responsabilità.
La manovra salva-Italia, presentata dal governo Monti ieri sera, non persegue né i grandi evasori né gli enormi patrimoni, spesso accumulati anche con il favore degli apparati pubblici; non riduce né le spese militari né gli sprechi della politica, con i suoi mille rivoli di finanziamento più o meno occulto, i suoi nepotismi, i suoi lussi; non riduce il sostegno ai privati nei settori a vocazione pubblica né quello a soggetti religiosi, Vaticano in testa. Soprattutto insiste nel difendere strategie liberiste ormai condannate dai fatti, in quanto causa esse stesse della terribile crisi che stiamo vivendo.
Per contro, la manovra che dovrebbe salvare l’Italia (e che purtroppo non la salverà, perché male e rimedio hanno la stessa radice) indica in chi ha sempre lavorato, e in chi vorrebbe farlo ma non può, il principale capro espiatorio di tutto il disastro accumulato finora, imponendo condizioni capestro sul fronte previdenziale. Quarantuno o quarantadue anni di contributi significa travolgere tutti, vecchi e giovani, impedendo il ricambio generazionale e rendendo la pensione un miraggio. Come il lavoro del resto, che la flessibilità (avviata dal centrosinistra e rafforzata dal centrodestra) ha finito per cancellare nelle sue forme più legittime e durature, esattamente quelle che prevengono le crisi e danno a un paese stabilità e futuro.
E allora di cosa vogliamo parlare? Della magnanimità del Presidente del Consiglio che dichiara di rinunciare al suo stipendio pubblico? Del Ministro del Welfare che piange mentre abbassa la mannaia? Del welfare: ci vuole davvero una bella faccia tosta a definirsi così! Ma si sa, l’animo dei “professori” è nobile: generoso (rinuncio allo stipendio), sensibile (piango), delicato nell’uso delle parole (tra welfare e mattanza meglio la prima).